La riserva

by albi69

Marco avrebbe tanto voluto giocare qualche minuto del Torneo dei Sette Comuni. Ma non così. Non come riserva della riserva del portiere. E non nella finale del torneo contro il Real Velletri. Ma il primo portiere della sua squadra, la Virtus Guidonia, si era infortunato durante il quarto di finale. E il secondo portiere aveva preso a pugni un avversario durante la rissa in semifinale: cartellino rosso e squalifica. Insomma serviva qualcuno che si sacrificasse e giocasse in porta la finale. E perché non lui?

Tanto quell’anno non era stato altro che la riserva della riserva del centravanti. Minuti totalizzati: zero! Sedici partite su sedici viste dalle panchine dei campi di mezza provincia.
– Mister, ma è proprio sicuro? – aveva provato a chiedere all’allenatore.
E l’altro, serafico – Marco, quest’anno come centravanti non sei mai servito a niente. Magari domenica succede il miracolo come portiere…
Non ci aveva dormito la notte. Si presentò al campo come fosse un patibolo. E non furono certo le parole del Capitano a dargli fiducia:
– Ragazzi, oggi dobbiamo fare come se il portiere non ci fosse. Dobbiamo fermarli prima che entrino in area, altrimenti segnano di sicuro.
– Grazie -, avrebbe voluto dire lui. E invece gli uscì una risatina imbarazzata che i compagni, almeno a giudicare dalle loro facce, dovevano aver letto come un “Scusatemi, lo so, faccio schifo, ma non è colpa mia, io ci sono nato pippa”.
Che poi lui tanto pippa non era, anzi. Il suo problema è che non aveva fiducia in se stesso. O, meglio, che aveva perso la fiducia in se stesso. L’aveva persa perché non era mai riuscito ad arrivare primo in niente. A scuola era bravo, ma non il primo della classe. A casa gli volevano bene, ma a suo fratello un po’ di più. Alle ragazze piaceva, ma poi si accorgevano sempre che c’era qualcuno più fico o più interessante. Il calcio era la sua grande passione, e aveva cominciato bene. Poi anche lì era arrivato qualcuno più veloce o più robusto o più alto di lui da mandare in campo. E così, piano piano, si era convinto di non essere niente di speciale. Aveva imparato ad accontentarsi di giocare meno, un tempo solo, poi venti minuti appena, poi dieci. E poi si era accontentato di giocare solo durante gli allenamenti. Era diventato una riserva. E poi la riserva della riserva.
La Finale era cominciata bene. Già al quinto minuto la sua squadra era passata in vantaggio. Cross dalla sinistra e incornata del centravanti, quello titolare, dritta sotto al sette. Dieci minuti di schermaglie a centrocampo e arrivava il raddoppio: calcio di punizione dal limite e palla che si infilava vicino al palo. 2 a 0 e Marco non aveva dovuto ancora fare nulla. I compagni erano stati una barriera insuperabile per gli avversari che non si erano mai avvicinati alla sua porta. Finì il primo tempo.
Nell’intervallo il clima di fiducia era palpabile, e lo sparuto pubblico sull’unica gradinata applaudiva la squadra che, per la prima volta nella sua storia, aveva finalmente l’occasione di vincere un trofeo.
– Dai ragazzi – li incitava il Capitano – dai che stavolta ce la facciamo!
– Sì! Dai! Forza! – rispondevano i compagni.
Tutti, tranne Marco che, terrorizzato, riusciva a malapena ad annuire con stampato in faccia un sorriso imbarazzato che neanche Charlie Brown.
Le cose precipitarono a dieci minuti dalla fine, quando Petrucci, il temibile centravanti avversario, decise di volersi riprendere la partita. Petrucci era il capocannoniere del torneo, uno che era arrivato addirittura nel giro della serie B. Poi un infortunio lo aveva riportato sui campi di provincia. Ma uno così, se vuole qualcosa, se la prende. Uno così, se vuole vincere, vince.
Petrucci superò in slalom due difensori e, una volta davanti alla porta, fece partire un tiro non irresistibile che si insaccò sotto lo sguardo sorpreso di Marco.
– Almeno fai finta di tuffarti! – lo incoraggiò un compagno.
– Cazzo, sembravi una statua – si complimentò un altro.
A due minuti dalla fine, il disastro: fuga di un avversario sulla destra, cross al centro, colpo di testa di un suo difensore, e palla sui piedi di Petrucci, ancora lui, che lasciava partire un sinistro da pochi metri. Stavolta Marco era sulla traiettoria del tiro, cercò di respingere coi piedi, ma la palla, beffarda, si infilò fra le sue gambe. Nessuno gli disse niente. I compagni erano tutti lì, intorno a lui, che lo fissavano in silenzio.  
– Io non ci volevo stare in porta, non sono capace – disse finalmente Marco. E la voce gli uscì talmente stridula che sembrava un bambino di dieci anni (che però, probabilmente, al posto suo ce l’avrebbe fatta a respingere quel pallone).
L’arbitro aveva già il fischietto in bocca quando un avversario entrò in area e finì in terra sull’intervento di un suo difensore. E quindi invece della fine, quello fischiò il rigore. Petrucci, ovviamente, si andò a prendere il pallone e si diresse verso il dischetto. Marco era impietrito sulla linea di porta. Non poteva essere vero. Era un incubo. Poi sentì quella voce dalla gradinata.
– Dai Marco amore mio! Dai che ce la fai!
– Silvia! – pensò Marco – Questa è la voce di Silvia!
Era stata il suo grande amore. Erano stati insieme solo un anno, ma era stato l’anno più bello della sua vita. In un attimo gli passarono davanti agli occhi tutti e dodici quegli splendidi mesi: il vestito che lei aveva indossato al primo appuntamento, quello nero con le roselline rosse, come girava intorno alle sue gambe mentre passeggiavano in centro. Gli tornò in mente il suo sorriso morbido e carico di promesse. Risentì il profumo dei suoi capelli, quello che lo avvolse come una sciarpa di seta quando, per la prima volta, fecero l’amore in auto, vicino al laghetto artificiale. Mise in fila tutti e quattordici i tramonti di quelle due settimane al mare in Calabria, gli aperitivi sulla spiaggia, gli abbracci caldi di sole e i baci freschi di mare. Ricordò una ad una le gite in bicicletta del sabato, i cinema della domenica, gli attimi insieme rubati al lavoro nel supermercato di lui e all’università di lei. Quando Silvia lo aveva lasciato, per lui fu un colpo. Improvviso. Secco. Duro.
Come quello del pallone di quel rigore che si stampò sul palo prima di finirgli in piena faccia e infilarsi nella porta. Non aveva sentito il fischio dell’arbitro, né aveva visto il tiro arrivare. Poi, forse per la pallonata, per un po’ non sentì più nulla.
Intravedeva i suoi compagni disperati in terra e gli avversari esultare estasiati. Finché la sentì di nuovo:
– Marco, ti amo!
E poi la vide. Era proprio Silvia. Abbracciata a Petrucci. Marco Petrucci.

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