Perdere il lavoro 2: Riprenditi il tuo tempo
by albi69
In un post precedente (qui), abbiamo visto come la perdita del posto di lavoro, un’esperienza oggettivamente drammatica, presenti però anche dei risvolti positivi. Il primo, e più importante dei quali, è il recupero di enormi quantità di tempo, quel tempo che con il passare degli anni abbiamo gradualmente ‘svenduto’ al miglior offerente. La parola ‘svenduto’ vale per tutti, anche per chi con il proprio lavoro guadagna diverse migliaia di euro al mese: a meno che, infatti, il suo ruolo non sia di pura rappresentanza, e quindi venga pagato solo per il fatto di chiamarsi Tizio o Caio, anche lui, in cambio di tutti quei soldi, dovrà cedere buona parte del suo tempo. E il tempo di ognuno di noi non ha prezzo.
Il tempo (lo scrivevamo anche qui), è la risorsa più importante che abbiamo. È la nostra vera ricchezza. Dovremmo veramente avere cura di come passiamo (investiamo) il nostro tempo. Dunque, perdere il nostro posto di lavoro significa anche recuperare tutto quel tempo che di solito passavamo alla scrivania in ufficio, alle macchine in fabbrica, in cucina al ristorante e così via. Significa, in definitiva, avere la possibilità di tornare indietro e poter decidere da capo come allocare la nostra risorsa più importante: il nostro tempo. È una seconda opportunità. È nostro preciso dovere sfruttarla nel migliore dei modi. Ci viene concessa o, meglio, ci si presenta, in un momento della nostra vita in cui siamo più maturi, in cui si presuppone che la nostra capacità di giudizio sia migliore, e in grado di guidarci a una più saggia ‘economia’ del nostro tempo, ovvero a una scelta più soddisfacente di come impiegare le nostre giornate. Questo ovviamente non significa semplicemente cercare un lavoro più remunerativo di quello che avevamo prima. Significa invece dare il giusto valore a ogni singola ora della nostra giornata, significa farsi in continuazione domande sull’effettiva importanza di ciò che stiamo facendo, in ogni momento.
Prima che la casa editrice per la quale lavoravo fallisse, mi occupavo di televisione. Dovevo scrivere di televisione. Non solo: dovevo scrivere di alcune cose, ma dovevo anche leggere e correggere molte altre cose che invece scrivevano i miei collaboratori. Questo presupponeva, ovviamente, che io conoscessi in primis quello di cui scrivevo, ma anche quello di cui scrivevano gli altri. Di conseguenza guardavo continuamente televisione. Lavoravo in redazione 8-9 ore al giorno, e poi a casa guardavo la tv per almeno 3-4 ore ogni sera, weekend inclusi. Certo, c’è di peggio, ma non è di questo che mi preme parlare ora. Mi preme parlare del fatto che, una volta ‘andato’ il lavoro, sono sopravvissute le 4 ore al giorno di consumo televisivo. Mi ero abituato. Ero assuefatto. Un po’ speravo che la mia condizione fosse temporanea e che in breve avrei ripreso a fare lo stesso lavoro. Ci è voluto un po’, ma poi ho cominciato a farmi delle domande su quello che stavo facendo, sull’effettiva importanza di quello che stavo guardando. E di contro sull’importanza del mio tempo.
Se perdi il lavoro, oggi, hai la grande opportunità di poter tornare a gestire interamente il tuo tempo. È un’arma a doppio taglio. Rischi di buttarne via tanto, o di tornare ad impiegarlo in modo poco proficuo. Non adagiarti in attesa di un’offerta di lavoro che magari non arriverà mai, di un contatto che non ti chiamerà, di una sicurezza che oggi non esiste. Ora più che mai, organizza le tue giornate, riempile di ‘task’, di compiti e incarichi da assolvere, leggi e studia, fai sport, impara a fare cose nuove, vai a letto stanco ogni sera. Bandisci la televisione dalla tua vita. E usa il tuo computer esclusivamente come strumento di lavoro, di ricerca e di studio, di condivisione di interessi e progetti. Insomma, impiega il tuo tempo per crescere, per migliorare, per prepararti ad una nuova vita.
Avete ragione entrambi nei vostri commenti…in questo momento sono anche io in una fase critica, ho dovuto lasciare il lavoro e non stavo meglio prima quando lo avevo.. ora sono nella fase in cui si cerca sé stessi che è in un certo senso basilare poiché sarebbe inutile buttarsi in un lavoro qualsiasi per poter pagare le bollette e poi cadere in depressione…. ci si pensa? il mestiere che si fa coinvolge tutta la nostra giornata…. se si fa qualcosa che non piace o che è frustrante lo è per tutta la giornata… ogni giorno…. allora tanto vale cercare qualcosa che piaccia di più o che ci faccia il minor danno possibile…. io sto cercando di fare questo… non è facile devo proprio dirlo…. a volte si arriva a un punto che non si sa più cosa ci appassiona e per cosa salteremmo giù dal letto con il sorriso il più in fretta possibile perché non si vede l’ora di cominciare…. era questo il concetto di felicità di qualcuno… e sono pienamente d’accordo. Allora mi sforzo o mi libero dai pensieri a seconda dell’umore per arrivare anche io lì… il senso della vita dovrebbe essere questo… usare quel talento che ognuno di noi ha più di chiunque altro e vivere la vita guadagnando con gioia perché allora lavorare sarebbe solo un verbo non più un dovere….. la piena realizzazione di sé….
Non sempre sembra sia possibile, però avendo tempo a disposizione fosse anche solo nella pausa pranzo cosa costerebbe guardarsi dentro e cercare di scoprirlo?
Non ci sono ancora riuscita, forse perché troppo repressa ma mi sono data un termine…. se voglio avere una chance di alzarmi felice allora ce la metto tutta…. altrimenti farò qualcosa che non mi piace e pagherò le bollette.
Ciao Sarah. Se devo essere sincero, il mio lavoro di prima, quello pre-crisi per capirci, mi piaceva e molto. Riuscivo comunque ad avere i miei motivi di insoddisfazione, ma quello è un aspetto caratteriale sul quale ho rinunciato da tempo a capirci qualcosa. Tanto per essere chiari, anche se oggi farei i salti mortali per poterlo riavere, non mi alzavo dal letto col sorriso tutte le mattine. Però capisco benissimo il tuo punto di vista. Se te lo puoi permettere (perché sei ancora giovane, o perché non hai impegni economici gravosi, o banalmente impegni familiari da rispettare…), non vale la pena arrendersi. Bisogna rispettare il tempo che ci è stato dato e cercare di dargli un senso. Bisogna cercare in tutti modi di essere felici, e se il nostro lavoro non ce lo permette, allora è giusto lasciarlo a qualcun altro che magari, invece, ne avrebbe più bisogno di noi. E noi dovremmo continuare la nostra ricerca, con in testa il nostro unico obiettivo: la felicità. Oggi io ho un nuovo lavoro che è agli antipodi di quello che avevo prima. Mansioni diverse, precarietà assoluta, stipendio più basso. Però ho più tempo libero rispetto a prima, e per quanto non mi darebbe fastidio guadagnare qualcosa di più, né poter pensare al mio futuro in una chiave un po’ più ottimistica, fatico a pensare di poter di nuovo scambiare la stabilità e la sicurezza di prima (che poi si sono rivelate tutt’altro) con questi nuovi ritmi. Insomma, nonostante abbia passato i due anni più difficili della mia vita, oggi non mi sento più lontano di prima dalla mia idea di felicità, anzi. Piuttosto mi sento più vivo di prima, quando il mio precedente status lavorativo mi aveva quasi anestetizzato nei confronti di quella che i più chiamano ‘vita reale’. Mi ero adagiato in uno stile di vita comodo e apparentemente privo di incognite. Insomma per me si è trattato anche di un salutare bagno di umiltà. Non sto dicendo che le cose siano più semplici, ho comunque un figlio di 11 anni, una moglie libera professionista massacrata dalle tasse, le rate del mutuo che ogni sei mesi arrivano con puntualità svizzera… Dico però che sono di nuovo in viaggio, dopo che per anni sono stato fermo pensando di essere ormai arrivato. Fatico, ma vivo. E il ‘cambiamento’ che prima vivevo come un incubo, oggi mi sembra un’opzione comunque interessante. Che non mi spaventa quanto mi spaventerebbe l’ipotesi di lavorare solo per arrivare a pagare le bollette.
Non meravigliarti dei miei commenti lunghi in realtà non servono per comunicare qualcosa ad altri, la scrittura mi serve per sciogliere i nodi miei e una volta sciolti non si attorcigliano più, se rimani attento; mi serve soprattutto per parlare a me stesso, è una rivelazione, io stesso comprendo che è molto difficile seguire tutto quando scrivo a raffica, magari qualcuno ci riesce, ma leggere tutto non è un obbligo anzi può capitare di leggere due tre cose e intuire tutto senza bisogno di andare oltre. Io davvero non voglio comunicare, oggi credo si comunichi troppo e non serve a nulla, ma comunicare con sé stessi, beh, quella sì è una rivoluzione. Se poi qualcuno è interessato, ben venga, l’importante è ricordarsi che siamo tutti diversi e ciò che è vero per una persona è raro sia vera anche per un’altra. Le facce sono tutte diverse, i corpi idem, le visioni del mondo sono ancora più deiverse e il vissuto delle esperienze non ne parliamo.
Ciao!
Eh no, caro, io voglio leggere e cercare di capire quello che tu e gli altri scrivono. Sennò i commenti cosa li terrei aperti a fare? Anzi, grazie per l’attenzione con la quale mi segui, e per i tuoi commenti puntuali.
Ciao
Ciao,
ritengo il tuo ragionamento davvero giusto, ma muovo una critica diciamo di metodo, di estensione. Tu racconti delle fasi che sono “critiche” all’interno di un’esistenza, la fase di ricerca di lavoro e di aberrazione da lavoro. E sono d’accordissimo che in quelle fasi c’è assoluto bisogno di un’azione per rompere delle situazioni che possono portare alla povertà da un lato, ma anche all’alienazione, alla devastazione psicologica, familiare dall’altra, in entrambi i casi ad una sofferenza, sorda o manifesta che sia, un vero inferno esistenziale.
Tali situazioni portano anche all’annientamento del senso di una vita, ma questo mi preme poco in quanto, a mio avviso, davvero una minoranza di persone ha chiaro il senso della propria vita e anche se l’avesse molto chiaro non mi interesserebbe in quanto starebbe comunque parlando di un “battito di ciglia temporale”, un nulla, se non si ha chiaro il senso dell’eternità di un’anima il senso di una vita è cosa talmente infima che non perdo neppure tempo ad approfondirla, e a ragione, toh, avevo dieci anni, poi venti, trenta, quaranta, quarantadue e sono stati un battito del mio cuore, i prossimi quaranta se ci arrivo idem, quando trovi il senso della vita di quaggiù la vita è già finita, o hai una prospettiva eterna o non vale la pena perderci tempo.
Torniamo quindi alle fasi critiche di ricerca di lavoro/povertà e lavoro/aberrazione. Un inferno. Davvero. E quando sei all’inferno fai di tutto per uscirne, su questo non c’è dubbio. Magari scappando, magari imbottendoti di pillole, magari passando non quattro ma dieci ore davanti alla TV o andando a prostitute, spesso scappare dall’inferno vuol dire addentrarsi ancor di più nella sua oscurità ma il bisogno di fuga viene comunque realizzato.
Io stesso ho vissuto un’esperienza simile alle tue, un tempo tanti anni fa ero classificato come manager, un piccolo manager ma con buone responsabilità. Non dovevo passare quattro ore davanti alla TV ogni giorno, ma quattro ore a girare per i locali per fare conoscenze e ampliare il mio giro di affari. Mi sono dimesso. Poi un altro inferno, sempre manager, quadro, sempre girare schiavizzando della gente, sfruttandoli all’osso, gente che magari meritava di essere sfruttata, ma non ero in pace con me stesso. Mi sono dimesso. Adesso guadagno molto meno, sono precario, praticamente non esisto negli organigrammi aziendali, ma sono in pace e mi diverto. mi diverto da precario. Soffrivo da manager.
Cosa voglio dire. Sono due fasi critiche. Hai una freccia, la strapperai. Forse la freccia andrà più a fondo, oppure sceglierai la strada della fuga che ho scelto io e la freccia verrà tirata via, ma in ogni caso ci sarà una reazione. Furiosa reazione, magari depressiva, magari espansiva, magari alienante oppure una fuga un dire “rinuncio”, ma il corpo reagisce per sua natura, in un modo o nell’altro. OK, poniamo che uno abbia preso le decisioni “giuste” e abbia trovato lavoro, creato lavoro, viva di rendita, oppure abbia lasciato una situazione che lo stava degradando, logorando, ovvero usciamo da questa “fase critica”. Non che sia facile o scontato uscirne, ma ipotizziamo che uno ci riesca, facciamo che una persona grazie a consigli, sacrifici, fortuna, bravura, sia uscito dal bisogno e dall’alienazione.
Ecco… sto parlando della maggioranza degli italiani. Sto parlando di Te (poniamo) tre anni fa o domani, periodo in cui non avevi/avrai problemi economici di sussistenza ma al tempo stesso avevi le potenzialità per ricalibrare la tua vita (anche se mancava la consapevole dell’esperienza, la coscienza della schiavitù). Ecco, sto descrivendo la situazione della maggioranza degli italiani, ma al tempo stesso l’ieri o il domani di persone che ADESSO vivono una fase critica.
Ora, queste persone, guardiamole, sono felici? Ringraziano Dio per ciò che hanno? O si lamentano. Degl governo, la crisi, la corruzione, la criminalità, il tempo, il traffico, lo smog, la sanità, la famiglia, i figli, le bollette, il mutuo, i colleghi, i dirigenti…. Sono fuori dalle fasi critiche che hai descritto, ma sono all’inferno lo stesso. Te lo assicuro, sono all’inferno. Ma non ha importanza perché ciò che conta per l’uomo non è essere all’inferno ma essere all’inferno IN COMPAGNIA. L’uomo non vuole il cielo, vuole la compagnia. Ove c’è tanta gente egli sente di essere nel giusto. E se l’inferno fosse pieno e il paradiso vuoto, vorrebbe essere all’inferno. E se una moltitudine di dannati opprime, schiavizza, degrada una minoranza di beai, l’uomo vuole essere tra i dannati, in compagnia, non solo.
Paradossalmente la fase della disoccupazione può essergli d’aiuto. Vedrà la realtà per ciò che è, si troverà solo, non aiutato, desolato, e forse, forse, rientrando nel mondo “normale” potrà conservare il ricordo di questa verità e rifiutare di farsi assorbire dal circolo dei dannati. E’ uguale, sempre di dannati si tratta, ma chi non ha problemi economici non li soffre. Non solo, non vede chi sta più in basso, ma cerca lui di arrivare più in alto.
Non so se mi spiego: la mia critica è rivolta al fatto che racconti di fasi critiche e come affrontare le fasi critiche, come uscire dalle fasi critiche, giustissimo, ma anche uscendone il problema è, per me, tutt’altro. Il problema vero è:
Come può uscire dalla dannazione di questa vita infernale, di questo meccanismo infernale, chi davvero vuole farlo.
E in questo non ha importanza essere in cerca di lavoro, schiavizzati dal lavoro, oppure lavorare e rendersi volontariamente schiavo di qualcos’altro. Per fare un esempio, conosco una famiglia di alienati in cui una delle schiavitù più evidenti è l’ottima educazione dei figli. Fiumi di soldi spesi per allevare quelli che per me sono perfetti imbecilli in grado di farsi rimandare a ripetizione mentre la mia famiglia sempre al verde non mi ha mai visto saltare neppure una materia. Figli strozzati dalle aspettative. Rimbambiti dagli stimoli. E’ solo un esempio, per dire quante facce può avere l’inferno, anche le più inaspettate. Eppure questa famiglia non ha problemi economici, anzi i soldi grazie ad un lavoro volontario e massacrante gli escono dalle orecchie, insieme a malattie gravi ed assortite. Ma potrebbero dire “no”. Ma non lo fanno. Il problema quindi, ripeto, non è quello di uscire dalle situazione di crisi, lì c’è poco da ragionare, il corpo lotta come un demonio per non morire, in un modo o nell’altro, andando verso l’inferno o la salvezza.
Per me la questione è: in qualunque situazione una persona si trovi, come può uscire dal suo inferno?
Non so se mi spiego… tolto l’aspetto di urgenza che caratterizza le “fasi critiche” all’inferno si era e all’inferno si rimane, magari con meno stress apparente. Conosco persone occupate a cui gli occhi sono letteralmente esplosi per il superlavoro, il getto di sangue ha crivellato la retina come in un film horror splatter. Non si muore, si rischia la cecità. Ma queste persone, la maggior parte delle persone, non vuole uscire dall’inferno. Vuole solo che la temperatura sia meno insopportabile. Solo che, alla fine, tra uno all’inferno con temperatura estrema e uno all’inferno con temperatura moderata, c’è una cosa in comune: non c’è felicità. E la felicità non è una domanda a cui si risponde “sì sono felice”, questo lo fanno tutti i dannati. Tra le tante caratteristiche della felicità, ce n’è una che mi piace infinitamente, ne basta una, tanto i dannati non ce l’hanno né potranno mai averla ed è questa: è che dicono “è tutto perfetto così”. Non perché ci si accontenta, no, quello lo pensano i dannati, è che la felicità è totalizzante e non richiede altro. E’ già tutto lì.
E’ solo un esempio, per dire che alla fine, la differenza tra le fasi critiche e le fasi normali dell’esistenza rischiano di essere solo un’illusione. Se uno dovesse “vivere” non dovrebbe fare distinzione tra fasi “critiche” e “normali”, dovrebbe per prima cosa vedere se la vita così com’è gli piace. Se non è così, beh sappia che si trova in un piccolo inferno, o grande, ma come uscirne fuori si trova molto più dentro di sé che fuori di sé.
Magari anche tu intendevi le stesse cose, magari no, ho solo voluto ampliare il discorso perché anche fuori dalla fase di ricerca di lavoro e in allontanamento dalla follia del mondo, mi rendo conto che la strada è tutta da scoprire e da percorrere e che in ogni momento, improvvisamente, si può tornare nella condizione iniziale di povertà o follia e allora ti rendi conto che quella condizione che credevi “normale”, magari priva di stress, con tanto tempo libero impegnato in svaghi ragionevoli, senza preoccupazioni, era solo una scatola più grande dello stesso gioco di scatole cinesi, ma non eri affatto libero né felice.
Ciao!
Mamma mia che commento lungo… e difficile. Ammetto che ho capito il tuo punto solo a tratti. Innanzitutto chiarisco il mio intento. Da disoccupati, soprattutto se per tanti anni (per me più di 20) si è sempre lavorato e ci si è sempre potuti permettere uno stile di vita tranquillo, si sta malissimo. Ci sono passato (e ci sono ancora dentro), ho fatto tutto un mio percorso durante il quale ho scoperto che è bene fare alcune cose ed è male farne delle altre. Questo mi è costato parecchie sofferenze. Considerato che sono più avanti in questo percorso rispetto a chi magari il lavoro lo sta perdendo in queste settimane, gli racconto cosa ho ‘scoperto’ io, perché magari può rendergli la cosa un po’ meno difficile. E questo è quanto. Se non ho capito male, tu dici: la disoccupazione è un’inferno, ma anche l’occupazione, e non saremo mai contenti finché non saremo liberi e felici. Se andiamo a parlare di libertà e felicità sono pienamente d’accordo con te, il paradiso non è di questo mondo. Però ti assicuro anche che, quando lavoravo al giornale, e ricevevo il mio stipendio ogni mese, e non ero costretto ad andare a fare la spesa al discount, e potevo addirittura permettermi un viaggetto ogni tanto, stavo meglio. Molto meglio. Non sarà stato il paradiso, ma ti assicuro che non era un inferno. E io sì, qualche volta ringraziavo anche Dio, nonostante non sia una persona particolarmente osservante. Quello che tu dici probabilmente è vero per molte persone, moltissime. Ma non per tutti. Molte persone riconoscono i propri limiti, sanno che quello che sono riusciti a costruire, seppure non eccezionale, è comunque importante. Se lo godono e ne rendono grazie. Non sarà il paradiso, però…
Ciao,
dicevo che quando tu ti trovi in una situazione di disoccupazione o di stress insopportabile (da troppo lavoro magari), c’è poco da fare e da dire: cerchi disperatamente di uscirne fuori. Basta. Oppure di trovare un equilibrio in quella folle situazione, ma un equilibrio che viene cercato con una foga furiosa.
Praticamente, in quella fase critica, c’è poco da fare, stai annegando e devi nuotare, se ti trovi in stato di bisogno. Più che cercare equilibrio cerchi una momentanea salvezza. Non c’è neppure da discutere sul da farsi, salvarsi. A meno che, certo, uno non abbia una buona disponibilità finanziaria anche momentanea che gli permetta di non preoccuparsi nell’immediato.
Ma ciò di cui tu parlavi, analisi, recupero del tempo, “guarigione”, non è a mio avviso un processo da “fase critica”, ma un processo successivo, quando sei uscito dalla fase critica. Non importa se stai lavorando o meno, ma devi aver trovato un seppur momentaneo equilibrio. E poi potrai pensare ad un processo di risanamento. Cmq, come ti dicevo, frequento tutte persone che lavorano e guadagnano bene ma se questa loro è vita, nei termini che ho descritto prima, allora la vita stessa è niente.
Quello che poi tu scrivi che prima quando lavoravi era meglio, sicuramente, ma questa è l’impermanenza dell’esistenza, discorso lungo, ma anche nei vangeli è riportato un esempio: uno stava bene, era sazio, ricco e tranquillo, a la notte è arrivata la morte e se l’è portato via. Lavorava tranquillo ed è stato licenziato. Pochi affrontano questo problema in sé quando stanno bene (lavorano) e preferiscono non pensarci, ma un processo di “guarigione” come dicevamo non può prescindere da questo, altrimenti si è canne sbattute dal vento. Automi dove: lavoro e soldi = sto bene; disoccupazione e povertà = sto male. Se è tutto qui, questa vita è un niente in cui a forza si cerca di trovare qualcosa che la riempia. Ma se uno ha visto che c’è molto di più di questo non riesce più a credere a questo.
cmq, sì, io sono d’accordo col lettore di prima in fondo, se uno si trova nell’emergenza deve agire molto e pensare poco, uscendo dall’emergenza si potrà meditare di più.
Ciao.
Ok, ora mi è più chiaro. Però non condivido in pieno quanto scrivi. Secondo me si può fare qualcosa anche in fase critica. Anzi è nella fase critica che può scattare la scintilla. Da quel momento in poi non è più fase critica ma si sta uscendo dalla stessa. E credo anche che dipenda dal tipo di fase critica, un conto è se sei senza lavoro, un altro è se hai troppo lavoro, un conto è se stai affrontando una depressione, un altro è se stai affrontando la malattia di un famigliare. Per il resto, è vero, in pochi affrontano i problemi quando stanno bene. Ed è per questo (anche) che a me piacerebbe un giorno tornare ad essere tranquillo dal punto di vista lavorativo ed economico. Per vedere cosa mi avrà insegnato questa esperienza, e per vedere come mi comporterei…
Secondo me l’argomento che affronti, anche se estremamente delicato e spesso doloroso, è di fondamentale importanza per tutti noi. Le condizioni materiali peggioreranno per tutti, a parte i soliti privilegiati. Per molti il peggio è già una triste realtà, molti altri si troveranno a breve a fare i conti con la sopravvivenza. Possiamo resistere a tutto questo solo se impariamo a vedere la vita in maniera diversa, se iniziamo a dare meno importanza alle cose, ad averne meno bisogno, e continuiamo a coltivare quello che c’è dentro di noi: solo così potremo affrontare un mondo dove rimarranno ben poche certezze, a parte quella di dover combattere anche solo per sopravvivere e di non poter dare niente di quello che conoscevamo per scontato. Grazie e complimenti!
Grazie per i complimenti e scusa per il ritardo con il quale ti rispondo. Sono d’accordo con te. Il mondo è cambiato, e cambierà ancora. Sono necessari nuovi valori, nuovi giudizi di merito, nuovi stili di vita e nuovi occhi.
Certo, certo, ma l’affitto chi lo paga?
Detesto questo parlare a vanvera, come se uno scegliesse di lavorare per hobby e una volta licenziato dovesse trovarsi altri “passatempi”…io sono disoccupata, e il lavoro non mi manca affatto, purtroppo mi tocca continuare la disperata ricerca…
Ciao, come ho scritto alla fine del post precedente (qui), io sto solo scrivendo della mia esperienza, e non pretendo certo di risolvere i problemi altrui (se potessi…). Insomma, per dirti che non sto parlando a vanvera. Anche io, dopo quasi quattro anni ‘sopravvissuti’ fra sussidio, qualche collaborazione, tanti sacrifici e un’esistenza più che precaria, continuo a cercare una soluzione. Ho fatto tanti errori durante questo periodo, e cerco di raccontarli perché magari a qualcuno posso essere d’aiuto, o magari solo di conforto. Anche la mia ricerca continua. Riflettere su quanto mi è successo mi aiuta a essere più equilibrato e meno disperato. In bocca al lupo!