Perdere il lavoro 4: La paura
by albi69
Il lavoro si può perdere in diversi modi. L’azienda può fallire, o magari trasferirsi in un’altra città, oppure si può essere semplicemente licenziati, e per i motivi più disparati. Si può essere colpevoli della perdita del proprio lavoro (in toto o in parte), oppure semplicemente ci si può trovare nella scomoda posizione di subire la perdita a causa di eventi esterni o dell’azione di altre persone. E dunque la reazione a questa perdita, almeno inizialmente, può essere diversa caso per caso: sorpresa, rassegnazione, rabbia, delusione, dispiacere, tristezza, depressione, in determinati casi addirittura… felicità.
A me, per esempio, è successo che una serie di sentimenti diversi fra loro si siano avvicendati nei primi mesi. Man mano che parlavo con altre persone di quello che mi era successo, o che riflettevo per conto mio sull’accaduto, mi accorgevo di essere arrabbiato per le indiscutibili colpe di alcune persone nei confronti dell’azienda (e dunque di tutti gli altri lavoratori), e poi deluso per il fatto che la mia professione subisse uno stop così repentino, e poi anche colpevole perché forse avrei potuto fare qualcosa di più o di diverso. Mi sono sentito anche inadeguato per non aver saputo dire di sì ad una importante offerta di lavoro ricevuta un paio d’anni prima che succedesse il fattaccio, e che mi avrebbe risparmiato molti patimenti. E all’inizio, devo essere sincero, mi ero addirittura sentito sollevato per non essere più costretto a frequentare quotidianamente alcune persone che non sopportavo più. Insomma, un vaso di Pandora di emozioni e sentimenti che si liberava ogni mattina, ogni volta che mi alzavo dal letto e mi ricordavo di non dover più andare in ufficio.
Tutto questo, però, è stato spazzato via da un sentimento molto più forte che si è fatto strada piano piano, e che gradualmente si è conquistato tutta la mia attenzione. Un sentimento che, ne sono certo, gran parte delle persone che hanno vissuto o stanno vivendo un’esperienza come la mia, ha provato o sta provando: la paura. La paura è subdola, perché quando ti attacca, non fa prigionieri, coinvolge tutto e tutti. Man mano che i mesi passavano, e diventava sempre più chiaro che non avrei trovato facilmente un altro lavoro, aumentava in me l’insicurezza, la paura di non farcela. Non avevo paura per me, sia chiaro. Per capirci, non ho mai temuto di finire sotto un ponte, a chiedere l’elemosina, o peggio. La mia paura era quella di perdere quello che avevo faticosamente costruito in tanti anni di vita e di lavoro. Per esempio ero terrorizzato dall’idea di rendere difficile la vita di mio figlio, di non potergli offrire un’istruzione degna di questo nome. Avevo paura, non solo di non potergli offrire opportunità migliori rispetto a quelle che aveva offerto a me la mia famiglia, ma di non potergliene offrire affatto. Con orrore pensavo all’eventualità di non riuscire a finire di pagare il mutuo della casa, e quindi al fatto che l’avrei persa. La cosa mi spaventava non tanto per il valore economico della casa, quanto per il fatto che la casa era l’unico investimento, l’unico bene materiale che ero riuscito a conquistare in vent’anni di lavoro. Il danno economico mi avrebbe lasciato in mutande, ma quello psicologico mi distruggeva già solo a pensarci. Avrei tagliato le gambe anche a mia moglie, che aveva investito con me. Avrei perso anche lei: i legami famigliari non avrebbero resistito a difficoltà così grandi e reiterate. Forse non sarei più riuscito a vivere con mio figlio: ci saremmo separati o sarei dovuto emigrare per cercare lavoro all’estero. La paura è subdola. E viaggia veloce.
La paura mi ha reso estremamente insicuro. Mi sono ritrovato, a quarant’anni suonati, a cercare un nuovo lavoro con addosso un’insicurezza nei miei mezzi che… neanche a diciott’anni appena uscito dal liceo. Cercavo di convincere altre persone a darmi quella fiducia che io per primo ero convinto di non meritare. Qualsiasi idea mi venisse in mente, la scartavo a priori perché non mi ritenevo in grado di portarla avanti. Mi ero annodato su me stesso, e non riuscivo più a sbrogliare la matassa.
Oggi non è più così. Come ho già avuto modo di scrivere, la mia situazione oggettiva non è cambiata molto. È tuttora molto precaria. Ho intrapreso una diversa strada professionale, nel senso che ho smesso di cercare un lavoro ‘sicuro’ (considerato com’è andata l’ultima volta, dubito che un lavoro da dipendente, almeno in una società privata, si possa ancora considerare sicuro), e ho abbracciato la libera professione. Di quale sia la professione in questione ho, al momento, un’idea un po’ confusa. Nel senso che se da un lato mi sono arreso all’evidenza che probabilmente non potrà più essere il giornalismo (trattasi di professione ormai morta e sepolta qui in Italia, riservata a pochi, per gli altri, al massimo, può essere un modo di arrotondare le entrate), dall’altro non ho ancora ben capito quale possa essere. Con il risultato che oggi faccio più cose, alcune più remunerative, altre meno (altre affatto). Però sono cose che in linea di massima mi piacciono, cose che mi piacevano anche prima, ma che non avevo tempo di coltivare (per esempio ho a che fare con la fotografia, una delle mie passioni da quando ero bambino). Aprire questo blog (non è stato il mio primo blog, ma è sicuramente quello che è durato più a lungo), mi ha dato modo di imparare molte cose su questo modo di fare comunicazione che, effettivamente, ha anche dei possibili sbocchi professionali. Ho anche avuto modo di mettere in cantiere, per poi uscirne quasi subito, una piccola avventura imprenditoriale nel campo del turismo. Pur se di breve durata, è stata un’esperienza interessante che mi ha insegnato diverse cose che potrebbero tornarmi utili in futuro. Riassumendo: la mia situazione economica non è migliorata, anche se mi sono messo su una strada che, spero, potrà portare dei miglioramenti. Però oggi non mi sento più… annodato. Oggi non ho più paura.
Se qualcuno mi chiedesse perché ora non ho più paura, come ho fatto a non avere più paura, non sono sicuro di sapergli rispondere. La situazione generale nel nostro paese è assai peggiore rispetto a quando di paura ne avevo tanta, in teoria dovrei averne di più. Eppure non è così. Non c’è un motivo solo, ben definibile, grazie al quale ho superato le mie paure. È piuttosto un lavoro congiunto di più concause amalgamate fra loro dal passare del tempo. Ne elenco qualcuna: focalizzazione di obiettivi specifici (non lavorativi); nascita di nuovi interessi; piena (quasi intensa) attività quotidiana; conseguimento di piccoli successi; ripensamento delle mie abitudini quotidiane; approfondimento e studio di tematiche inerenti le mie competenze professionali, o collaterali ad esse. Non ultimo il fatto di poter contare sulla porta sempre aperta di alcune persone sempre disposte a confrontarsi con me nei momenti più difficili.
Nel mio lungo periodo di disoccupazione, ho letto tanto, tantissimo, più che in ogni altro momento della mia vita. Non solo romanzi o libri. Ho letto e seguito numerosi blog e articoli scritti sul web. Ho fatto delle scoperte interessanti, ho incontrato autori che non conoscevo e che, non esagero, mi hanno cambiato la vita in un momento in cui la mia vita aveva bisogno di cambiare. Probabilmente ho incontrato le letture giuste nel momento giusto. Ho letto di tutto, anche cose che non avrei mai pensato di leggere, tipo libri sul ‘pensiero positivo’, o articoli sulla neurolinguistica o sul coaching, cose lontanissime da me e che ho sempre detestato. Continuano a non piacermi, ma mi hanno comunque lasciato qualcosa che credo abbia contribuito a migliorare la mia situazione. Ho letto storie di persone che hanno fatto scelte importanti, a volte controcorrente, e che hanno cambiato il proprio modo di pensare al lavoro, alla vita, ai soldi, a se stessi. Tutto questo è stato molto istruttivo. Mi ha insegnato per esempio a non puntare subito e direttamente all’obiettivo principale (che nel mio caso sarebbe stato quello di trovare un lavoro bello, soddisfacente e remunerativo come quello che avevo prima), ma a puntare ad obiettivi più piccoli, diversi, onestamente più facili da raggiungere. A focalizzare la mia attenzione su questi piccoli obiettivi perché sarebbero stati loro a lastricare la strada che mi avrebbe portato gradualmente verso obiettivi più importanti. Il bello è che la cosa funzionava. Ogni piccolo successo (dimagrire qualche chilo, svuotare un armadio e disfarmi di una serie di oggetti inutilizzati, fare attività sportiva con una certa regolarità, realizzare alcuni lavoretti in casa) mi dava la fiducia necessaria per affrontare la sfida successiva. Tutto questo mi riempiva la giornata, come e più di quanto lo faceva la mia normale attività lavorativa. Ho messo in discussione molte delle mie abitudini, e sono riuscito a cambiarne diverse: passo molto meno tempo davanti alla tv (lo facevo normalmente per lavoro, ed era diventata una deleteria abitudine anche da disoccupato); mangio molto meglio rispetto a prima (a parte sotto Natale); sto più attento alla mia salute, cammino molto di più, quando posso mi muovo in bici; evito spese non necessarie, il che è un bene non solo per il portafogli, ma diventa una forma mentis che ti spinge ad analizzare sempre cosa è necessario e cosa no, ad evitare di circondarsi di oggetti, ma anche di situazioni e abitudini dannose o quantomeno poco utili.
E poi mi sono messo a studiare, o meglio ad approfondire alcuni aspetti del mio (ex)lavoro, o forse sarebbe meglio dire della mia professione. Che come (e più) di molte altre, è stata rivoluzionata dall’informatica e da Internet. Ebbene, negli ultimi due anni le mie competenze sono cresciute molto di più rispetto, per esempio, a quanto siano cresciute durante i miei ultimi due anni passati in redazione. E questo oggi mi permette di propormi professionalmente in maniera molto più duttile. Tutto ciò, ovviamente, ha richiesto del tempo. In ogni senso. Questo processo che io racconto in poche (?) righe, è durato almeno un paio d’anni. E durante questo periodo le mie giornate si sono riempite via via sempre di più. Ho avuto sicuramente più tempo da dedicare anche alla mia famiglia (continuo a pensare che comunque tutto quel tempo di qualità che sono riuscito a passare con mio figlio non abbia prezzo) e a me stesso. E fra una cosa e l’altra le mie giornate sono diventate intense come e più che ai ‘bei tempi’. Il risultato è stato che ho avuto meno tempo per avere paura, o almeno meno tempo per pensare a tutte quelle cose a cui pensavo dopo essere rimasto senza un lavoro.
Anche le persone hanno contato, ovviamente. Due in modo particolare. La prima mi ha aiutato in due modi: economicamente, quando ho finito i risparmi che avevo da parte e ancora non mi arrivavano i soldi della cassa integrazione (ci è voluto oltre un anno), e moralmente trovando sempre la parola giusta al momento giusto. L’altra professionalmente (e di riflesso economicamente) dandomi fiducia quando neanche io credevo di meritarmela, e insegnandomi un nuovo lavoro.
Ancora non posso considerare chiusa questa fase della mia vita. La piantina è ancora troppo fragile, e il vento soffia ancora troppo forte. Ma oggi mi considero fortunato, o comunque più fortunato di tanti altri. Un mio ex-collega, più grande di me, si è tolto la vita pochi giorni fa. Non tutte le situazioni sono uguali, e non è detto che quello che è servito a me possa servire anche agli altri. Spero che chi leggerà questo mio post possa trovarlo in qualche modo utile, soprattutto se si trova in una condizione simile a quella che ho attraversato io. Non voglio o forse non sono in grado di dare consigli. Ma sicuramente la curiosità, la voglia di fare, la fiducia incrollabile nel fatto che ci sia comunque una strada da percorrere, la disponibilità a cambiare anche drasticamente, sono elementi fondamentali per superare le paure che ti attanagliano quando sei in una situazione del genere. Non sono qualità che tutti hanno. Io stesso non le avevo, le ho acquisite solo con il tempo. E non si acquisiscono davanti alla tv.
buon pomeriggio 🙂
io ho ancora un po’ di paura, non se n’è andata del tutto.
con il tempo ho imparato a gestirla, a comprenderne i segnali, ad affrontarla e a proseguire il mio cammino “nonostante” lei… ogni tanto sento che punge, che graffia da qualche parte del mio corpo, mi fermo ad ascoltarla, poi continuo la mia via…
dal tuo post mi accorgo di un atteggiamento che io non ho ancora imparato a usare: l’organizzazione… e quindi grazie mille, ne farò tesoro!
Chiara
Ciao Chiara,
capisco benissimo quello che dici. Le cose che mi spaventavano non sono mica sparite. Sono lì. Sono problemi reali che non si possono cancellare con la forza della volontà, col pensiero positivo o con l’ottimismo. Però sono ‘nemici’ che, mentre ieri mi assediavano preannunciando sventure e atrocità, oggi riesco tranquillamente a guardare negli occhi, sostenendo lo sguardo e la sfida. Più che organizzazione, è metodo. Di solito ogni lavoro ha la sua organizzazione, il suo metodo. Perdendo il lavoro possiamo fare due cose: lasciarci prendere dalla corrente facendoci trasportare dove capita, oppure applicare un metodo (o se vuoi un’organizzazione) alla nostra vita non-lavorativa. Secondo me questa seconda ipotesi ci aiuta a rimanere sintonizzati, concentrati, e quindi più pronti a cogliere le occasioni che la vita ci presenta. Buona serata!
La parola chiave chiamasi: RESILIENZA
È adeguata solo in parte. Non dice tutto su cosa quei colpi ti lasciano dentro. Ma grazie!
La parola chiave si chiama C… Scusa volevo dire FORTUNA!
🙂
Ah, pensavo volessi dire C..amicia, nel senso di nascere con la camicia…;-)
Butta un uomo fortunato nel fiume Eufrate…
e come niente ne verrà fuori con una perla in mano!
Proverbio babilonese
Ciao, la paura te la fa venire anche questo mondo così come è strutturato, se perdi il lavoro e sei uno che non può spendere, comprarsi tutto ciò che fa status, allora sei un perdente (anzi per il mondo lo è anche chi si ammazza di lavoro e dopo aver pagato tutto non ha mezzi per gli status vari). Il problema, forse, è questa impostazione economica occidentale fondata sul consumismo sfrenato…ci ritroviamo così perchè così è stato seminato! Anni fa mio padre perse il lavoro, era abbastanza normale in quel periodo, non era il solo e non aveva un minuto di tempo libero per tutte le cose che aveva da fare…essendo uno bravo, dopo qualche tempo è stato richiamato e così via x anni…adesso se accade, vieni guardato a vista, se spendi rimani uno a posto (anche se nessuno si pone la domanda: come fa?), se contrai i consumi sei uno che non sa mantenere la propria famiglia.
È vero, la società in cui viviamo si aspetta che ci comportiamo in un determinato modo. Ma detto questo, in considerazione del fatto che la società non è che una semplificazione per definire una moltitudine di persone del tutto simile a me, la cosa mi sembra molto meno drammatica. Delle persone simili a me si aspettano che io mi comporti in un certo modo? E allora? Si sbagliano. Ti dico una cosa: dal momento in cui ho perso il lavoro, mi si è presentata tutta una serie di problemi. Economici in primis, ma anche relazionali, organizzativi, psicologici. Ma non mi sono mai preoccupato di sembrare un perdente agli occhi degli altri. Mi angosciava il fatto di non poter far studiare mio figlio, non il fatto che qualcun altro potesse pensare che non ero in grado di mantenere mio figlio. Secondo me, se una persona ha la sfortuna di perdere il lavoro e il suo problema è cosa possano pensare gli altri, ha problemi ben più gravi che la perdita del lavoro. Per inciso trovo che una contrazione dei consumi (quelli superflui in primis) possa essere solo positiva, anche per chi il lavoro ce l’ha ancora. E rimpiango il fatto di non averlo capito prima, quando ancora avevo il mio lavoro e il mio stipendio.
Il dramma è che oggi questo discorso sulla volontà di contrarre i consumi e per vaste fasce della popolazione superato, dato che contrarre i consumi è divenuto necessità. Penso che non sia più un problema. Un problema nasce quando hai da fare scelte dolorose, ma se devi soffrire cmq senza aver possibilità di scegliere è meglio passare ai tagli e pensare ad altro, senno’ uno si deprime….
Pensa a cosa sai fare e a cosa ti piacerebbe imparare a fare. E poi mettiti sotto. Leggi, studia, prova, scarta e riprova.
Ecco, questo.
Non si vive di sola passione, d’accordo; ma se esiste un’occasione in cui ci si può permettere di essere drastici è proprio quella della perdita del lavoro.
E’ quello il momento in cui possiamo concederci il (presunto) lusso di fare qualcosa (fosse anche solo leggere un libro) che ci piace, senza affondare nei sensi di colpa.
Se riesco a dirmi, anche solo per un pomeriggio, che per brutta che sia la mia situazione questa, di fatto, è; e stare a consumare il pavimento per la rogna non la migliorerà, allora potrò se non dare il via a nuovi eccitanti progetti almeno godere in modo pieno, ‘senza poterci far nulla’, della vita, e trarne insegnamento, nuove prospettive, anche soltanto (si fa per dire) la serenità di esistere.
Se non fosse per il fatto che, come nel mio caso, hai la responsabilità di altre persone, stare fermi per un po’ secondo me non fa male. Il lavoro, i suoi tempi, la sua immanenza, occupa una parte davvero enorme del nostro tempo. E delle nostre attenzioni. Della nostra vita, insomma. Fino a definirci del tutto, addirittura. Una delle prime domande che facciamo a una persona quando la conosciamo, è “tu cosa fai?”
Così rischiamo che tutto il resto assuma una rilevanza ridicola. Siamo troppo occupati per coltivare le nostre amicizie, le nostre passioni, per sperimentare novità, per soddisfare le nostre curiosità, per capire chi siamo. Paradossalmente, la perdita del lavoro può aiutarci a scoprire chi siamo veramente.
Già, la responsabilità di altre persone.
Sono in questo senso una privilegiata, in quanto ho la responsabilità di mia madre, ma non tanto economica (è casomai lei che mantiene me!), quanto della sua tutela.
Sul resto, perfettamente d’accordo.
Tanto che mi sono ripromessa di riprendere la mia involontaria, spontanea risposta data alla psicologa l’ultima volta che ci siamo incontrate:
– Cosa fai normalmente a casa, adesso che hai sospeso l’università?
– Mah, niente…
… e giù a cercare di evidenziare come anche rimettermi la testa in ordine e riorientarmi per una ricerca di lavoro che non sia un’affannosa elemosina siano occupazioni importanti.
Naturalmente, più che lei, non ho convinto me stessa.
Poi, una volta lontana, mi è stata di nuovo chiarissima la valenza del poter godere del mio tempo, che quello libero non è buttato.
Eppure.
Il tempo è oro. Avere tempo è una forma di ricchezza. Che va investita e fatta fruttare. In modo da non doverla rimpiangere il giorno che non dovessimo averne più.
Bravissimo. Il tempo va investito e fatto fruttare. Sai qual’è il dramma? La maggior parte delle persone che conosco e che ha fatto scelte di decrescita, per non dire tutti, è riuscita a riposarsi, ma non è riuscito ad investire alcunché. Attenzione, col riposo magari si è salvata la vita. Però non ha avuto “evoluzione” credo dipenda anche dalla struttura del mercato del lavoro in Italia, che rende difficile o impossibile la riqualificazione. uno si licenzia o prende un’aspettativa per fare chissà che cosa e poi non fa niente.
Invece ho visto esperienze di successo in chi ha un hobby sviluppato bene in contemporanea al proprio lavoro e una volta avviato è naturale lasciare il lavoro che ti da da vivere per un altro lavoro in cui hai già ottenuto qualche successo sia pure a livello hobbistico. Ma credo che il successo in un lavoro alternativo si costruisca mentre un altro lavoro ce l’hai, magari un centimetro al giorno senza strafare. Se ti trovi con tutto quel tempo libero magari non riesci a concretizzare davvero niente. Ammesso che il lavoro che da da vivere e la famiglia concedano tempo sufficiente per altro, ovvio.
Ciao
Sono d’accordo. Il guaio è che il mio lavoro di prima mi assorbiva totalmente e, per quanto mi piacesse, non mi rimaneva alcuna energia per dedicarmi ad altre cose che non fossero totalmente passive. E le cose che mi sarebbe piaciuto imparare a fare, rimanevano lì, eternamente rinviate a chissà quando. Oggi, che ho meno sicurezze e molti dubbi in più, ho però il tempo e la voglia di fare altro. E ovviamente sono andato a riprendere alcune di quelle cose che mi sarebbe piaciuto tanto fare prima. L’ideale sarebbe riuscire a lavorare per nutrirsi, ma avere abbastanza tempo per nutrire la propria anima.
Questa riflessione sulla perdita del lavoro, e di conseguenza delle proprie sicurezze professionali e non, è reale, calzante e dolorosa. Ed è un vero successo personale ed umano che si riescano a riconquistare fiducia e sicurezza in sè lavorando su se stessi e ri/trovando nuove passioni. Ma certamente il fatto di trovare qualcuno che a livello lavorativo ti conceda fiducia, ma soprattutto ti dia a possibilità almeno di proporti, è indispensabile. Per una donna sposata e con figli è praticamente impossibile. Ed allora si abbraccia l’apatia, il volere aspettare di toccare il fondo nella speranza di risalire. Centrare dei piccol obiettivi è assolutamente positivo e giusto, ma è trovarli che è difficile, soprattutto quando non ti riconosci in niente altro rispetto a quello che facevi e che amavi fare prima.
Comuque tenterò.
Grazie
Ciao Mascia,
è vero, io sono stato fortunato perché una persona che mi conosceva, con la quale ho lavorato in passato, mi ha dato l’opportunità di un appoggio nel suo ufficio. Ci è voluto un po’ di tempo, ma alla fine sono riuscito a cavarne fuori anche qualche soldo (pochi), ma soprattutto una nuova identità professionale. E nuova fiducia in me stesso. La tentazione di darsi da fare per risalire solo una volta toccato il fondo, la conosco, l’ho accarezzata, ma poi l’ho cacciata via. Ogni situazione è diversa, e quindi una verità che vada bene per tutti non ce l’ho. Nessuno ti verrà ad offrire un nuovo lavoro, soprattutto in questo periodo. Quindi concentrati su qualcosa di tuo, qualcosa che ti piacerebbe fare o vedere realizzato. Pensa a cosa sai fare e a cosa ti piacerebbe imparare a fare. E poi mettiti sotto. Leggi, studia, prova, scarta e riprova. Non pensare adesso a quanto potresti (o dovresti) guadagnare. Fallo per solo te. Per sconfiggere l’apatia. È il nemico numero 1. In bocca al lupo! E fammi sapere.
“Non pensare adesso a quanto potresti (o dovresti) guadagnare. Fallo per solo te. Per sconfiggere l’apatia.” ecco questo pezzo andrebbe davvero tenuto a mente. grazie Alberto, ottimo anche questo post della serie!
Grazie mille. Mascia, la persona alla quale rispondevo, ha lavorato con me per parecchi anni. È una donna in gamba. Supererà questa fase, e magari scoprirà di amare e saper fare molto di più di quanto pensi ora.
Ciao,
scrivi: “il giornalismo (trattasi di professione ormai morta e sepolta qui in Italia, riservata a pochi)”
puoi chiaririmi questo punto?
Niente di strano che una professione muoia, mio nonno era calzolaio quando le scarpe le fabbricavano in bottega, poi è arrivata l’industria e la professione è morta, lui ha dovuto cambiare mestiere.
Però non ho capito in che senso la (tua) professione di giornalista è morta.
Molto onesta la tua testimonianza.
Ciao.
Ciao!
Quando scrivo del giornalismo come professione morta, mi riferisco al fatto che si tratta ormai di una professione senza prospettive. E lo è non tanto per sue derive particolari (nepotismo, ruffianeria, servilismo, ecc., che pure sono conclamate), quanto all’effettiva povertà dell’offerta di lavoro. Il giornalismo è indissolubilmente legato all’editoria (sia essa cartacea, web o radio-tv). E il settore editoriale italiano è stato decimato dalla crisi, una crisi iniziata ben prima della ‘grande crisi’ di questi ultimi anni. Con la consueta lungimiranza, intanto, i corsi di laurea in Scienze della Comunicazione hanno vomitato fuori migliaia di neolaureati con ambizioni giornalistiche. Il risultato è stato che, mentre il mercato vedeva cadere uno dopo l’altro tutti i gruppi editoriali medi e piccoli protagonisti degli anni Ottanta e Novanta, con conseguente allargamento delle fila dei giornalisti (e no solo) disoccupati, sullo stesso mercato si è affacciata una nuova manodopera teoricamente preparata, ma disposta a tutto pur di firmare un articolo o apparire in un servizio in tv. Quando io ho cominciato a scrivere (parliamo di periodici mensili, nel 1987), mi pagavano 30.000 lire a cartella (1800 battute spazi inclusi). Logica vorrebbe che oggi, dopo 25 anni, quelle 30.000 lire siano diventate almeno 30 euro. E invece no. Oggi per ottenere 30 euro (lordi!) scrivendo per un periodico di livello medio, devi riempire una pagina del periodico, poco importa se ci vogliono 2, 3 o 4 cartelle. Non vuoi farlo tu? C’è pronto un giovane laureato ben contento di farlo al posto tuo. È così in molti settori, oggi. Ma in questo modo non si possono certo ottenere la qualità, l’imparzialità, la perizia e la rettitudine che dovrebbero contraddistinguere il giornalismo. Dunque non c’è lavoro per tutti, e quello che c’è è pagato malissimo. Nei grandi quotidiani, nelle grandi televisioni, il giornalismo ha ancora un senso. Ma il virus sta infettando un po’ tutto. L’unica speranza sarebbe il web. La vera informazione è lì. Peccato che non ci sia ancora un modello economico in grado di garantire a chi vuole e può fare informazione sul web, uno standard occupazionale professionale. In questo senso il giornalismo come professione è morto (o almeno è agonizzante). Può essere magari un modo di arrotondare le entrate di un altro lavoro. Di sfogare la propria passione e provare soddisfazioni personali. Ma niente di più.
Beh, sì, allora come mi disse ormai dodici anni fa un manager: “Oggi c’è troppo di tutto”. Aveva ragione allora, figuriamoci oggi! Mah…
Dato che l’argomento mi interessa, non perché voglia diventare giornalista ma in quanto lettore curioso, ti chiedo se questa “crisi editoriale” nata prima se ho ben compreso della “crisi del 2008” sia se ho ben compreso generata da un eccesso di offerta (troppe persone che sono disposte a fare quel tipo di lavoro e che “sembrano” avere i requisiti per farlo).
Altrimenti, in tutta onestà, non comprendo cosa sia successo, ovvero se è una crisi di “domanda” cos’è successo? La gente già leggeva poco e legge ancora di meno? Ci sono altri media più appetibili tipo internet, TV via cavo, la CNN? (Però in questo caso ci dovrebbe essere un semplice travaso di professionalità da un media ad un altro).
Ecco, io sono laureato in economia e mi interesso da sempre di temi legali alla domanda e all’offerta (aggregata), comprendo il fenomeno della globalizzazione, dell’eccesso di offerta, del…
Ma nell’editoria, cos’è successo, forse che tutti si sono messi a fare i giornalisti e aprire blog e quindi l’offerta era talmente elevata che ha messo in crisi le professionalità consolidate, qualcosa di simile? gli editori si sono accorpati e hanno tagliato i posti di lavoro all’interno distruggendo al contempo la concorrenza?
Sai spiegarmi “in che mondo (editoriale) viviamo”?
Grazie
Ciao
No no, la domanda non c’entra, quella era (è sempre stata) ed è tuttora scarsa. In Italia si scrive molto e si legge poco, tradizionalmente. La crisi si è generata a causa dell’eccesso di offerta. Un’offerta malata che si reggeva più sul mercato pubblicitario che sull’effettivo consumo, nel settore dei periodici. Così come nel settore dei quotidiani, in buona parte si reggevano (e tuttora in parte si reggono) sui finanziamenti statali. Finché il mercato pubblicitario è stato, per così dire, ‘libero’, ha funzionato. Quando poi leggi illuminate come la Gasparri (che Dio abbia in gloria quel brav’uomo!) hanno posto dei paletti che favorivano i media radiotelevisivi su quelli cartacei, e nel merito le grandi concentrazioni editoriali rispetto ai piccoli editori, il giocattolo è saltato. Gli editori che nel frattempo avevano assunto giornalisti su giornalisti, non sapevano più con cosa pagarli, visto che il mercato della pubblicità si è diretto altrove (è questo per esempio il caso della mia ex-casa editrice). Per assurdo si sono salvati alcuni editori che in barba alle leggi sfruttavano lavoratori non assunti o assunti con contratti meno onerosi, quelli cioè che contenevano i costi. Questo ha anche significato un forte abbassamento della qualità di quello che si trova in edicola. Un conto è che un periodico che parla di materie scientifiche abbia in redazione tre o quattro giornalisti specializzati. Un conto è che abbia un paio di ragazzetti di belle speranze che si mettono a rimaneggiare comunicati stampa o articoli provenienti da riviste straniere. Nel primo caso l’editore non si regge a causa dei costi ingenti. Nel secondo l’editore magari resta in piedi perché non ha concorrenti forti, e con quelle 5-10 mila copie che vende al mese, riesce comunque a generare profitti. Però in edicola ci va una rivista di bassa qualità.
In più le vendite si sono profondamente abbassate in generale a causa (o per merito) di Internet. Non so te, ma io che ero abituato a leggere almeno un quotidiano al giorno, nel weekend anche due o tre, non ne compro più ormai da qualche anno. Il problema è che mentre il mercato si contraeva, migliaia di studenti completavano il loro quinquennio di studio e si affacciavano sul mercato. Quindi la domanda di professionalità diminuiva e l’offerta cresceva. Con il risultato che in tempi di crisi generale conclamata (e budget pubblicitari ridotti per tutti, tv e radio comprese) si preferisce ‘utilizzare’ manodopera magari meno esperta ma più economica, precaria e… controllabile.
In che mondo ‘editoriale’ viviamo? Dobbiamo fare delle distinzioni, perché esistono più mondi. C’è il mondo dei grandi quotidiani, che sono dei veri e propri centri di potere politico-economico e che quindi non possono essere confusi con il resto dell’industria editoriale. C’è l’editoria cartacea minore, e ti ho già spiegato come funziona. C’è un’editoria cartacea a maggior diffusione, che però fa capo a grandi gruppi internazionali, e quindi ragiona in termini diversi (da queste parti è ancora possibile per un giovane sperare di costruirsi un futuro). Poi c’è la televisione. E qui parlo più per sentito dire (amici e conoscenti che ci lavorano) che per esperienza personale. In generale posso dirti che in tv, se ci sei arrivato prima di otto-dieci anni fa, forse l’hai sfangata. Ma se ci sei arrivato di recente sei comunque messo male. Si lavora solo con minicontratti a tempo determinato, e fra un contratto e l’altro devono passare dei mesi. In Rai funzionava così anche prima, ma era diventata norma il fatto che dopo qualche contratto tu facevi causa all’azienda e automaticamente venivi assunto. Oggi non è più così. Se fai causa, facilmente la perdi. E non è che in ambienti più ‘moderni’ sia diverso. La stessa Sky, che ha un canale di news 24 ore su 24, assume solo con contrattini di tre-sei mesi al massimo. E non è un gran vivere, neanche in fatto di stipendi…
Bellissimo articolo, dovresti farci un post ad hoc. E dovrebbero leggerlo anche gli studenti, soprattutto.
L’ho letto e riletto più volte, a me più che le successive deflagrazioni che fanno crollare, esplodere, collassare un’impalcatura economica interessa comprendere quale sia la scintilla, la miccia, la goccia che fa traboccare il vaso.
Vediamo se ho capito bene, e poi lo metto a confronto con gli studi che ho fatto:
l’italiano scrive molto e legge poco è un dato storico. Prima non c’era Internet e la gente comprava un giornale, un quotidiano, una rivista. All’interno delle redazioni c’era gente con un contratto di lavoro valido, magari dopo anni di gavetta. Data questa struttura, ci si poteva permettere una certa professionalità del personale e una buona qualità dello scritto in termini di contenuti.
Il mercato era “libero”. Quindi i “piccoli/medi” editori potevano competere. Non era il lettore ma la pubblicità che permetteva un profitto. I grossi gruppi sono sempre stati sovvenzionati dai soldi pubblici, anche oggi.
Cmq negli Stati Uniti credo che la situazione delle vendite sia uguale: le vendite permettono la copertura dei costi, la pubblicità garantisce un profitto. I grossi gruppi poi ricevono di quegli aiuti da far impallidire i mercanti di armi. D’altronde nessun candidato al mondo di nessun partito politico riesce ad essere eletto senza l’adeguato sostegno di una parte almeno di stampa favorevole e che chiederà di essere ricompensata per i servizi resi. Forse è così in tutto il mondo.
Però ad un certo punto, mi viene da ridere, alcune leggi “ad personam” (ma tanto non si scandalizza più nessuno) favoriscono i Grandi Gruppi consentendo guadagni ancor più favolosi e uccidono letteralmente quel po’ di libertà che il mercato era riuscito a ritagliarsi. Solo chi sfrutta di più le sue risorse umane vivacchia, chi garantiva qualcosa in più muore o abbandona il campo.
Finora è corretto? Perché messa così sembra più un danno generato da un azione “politico-industriale” che realmente di mercato. Un danno insomma che proviene dall’alto. Poi c’è un eccesso di offerta (di giovani che vogliono fare giornalismo) che, nella situazione che si è venuta a creare, permette un ulteriore abbassamento dei “costi” ovvero delle garanzie sindacali, contrattuali, salariali. Anche perché, nel frattempo, da un lato sono nate nuove forme contrattuali ancor più penalizzanti e dall’altro gli stessi tribunali del lavoro non riescono a garantire gli stessi diritti che un tempo venivano riconosciuti (questo sta succedendo in moltissimi settori).
I nuovi media impiegano sì risorse ma non garantiscono gli stessi contratti presenti nel “vecchio” giornalismo, e non richiedono la stessa professionalità… e giù, e giù, e giù…
Il fatto che analizzata così la crisi del settore editoriale mi sembra legata al generale degrado dei diritti e delle condizioni dei lavoratori post crollo dell’ex URSS (non c’è alternativa al capitalismo quindi il capitalismo fa quello che vuole). Ovvero la miccia non è che l’italiano legge meno, al massimo legge peggio, su video invece che su carta. poi, una volta doveva comprare una rivista e magari leggerne solo il 15-20% (già il 50% era pubblicità), oggi quel 20% lo scorre semplicemente su internet.
Da un lato risparmia, dall’altra c’era una rivista lì sul suo tavolo e se era di qualità magari la sfogliava distrattamente e ogni giorno imparava qualcosa di nuovo e importante. Oggi va su internet, si legge il suo 20% che gl’interessa e poi si lascia trasportare dalle onde di internet che ripropongono per la maggior parte il peggio della spazzatura TV: pubblicità palese o occulta, gossip, foto succinte, e articoli senza fonti e senza fondamenti. Il copia/incolla poi è semplicissimo, basta citare la fonte e un unico articolo viene replicato milioni di volte, cosa impossibile con la carta.
Da una lato quindi la politica delle multinazionali che soffoca il mercato “libero”, gli interessi, la distruzione dei lavoratori del settore che ormai sono “costi” e non risorse, e l’offerta di un’editoria da discount che è perfetta per l’uomo moderno con poco tempo e tanta e forse morbosa curiosità.
Ricordo che a dieci anni leggevo un famoso periodico pieno di ricche informazioni perché ce lo portavano gratis, i circoli ricreativi erano abbonati e poi invece di buttarli finivano in varie case di soci che potevano rileggerli con tranquillità o regalarli ai vicini. Credo che siano state le migliori letture, e tra le più formative, della mia vita.
Vista così la crisi appare irreversibile, legata com’è a delle specifiche leggi, a uno specifico modello di sfruttamento del lavoro su scala legislativa, ad uno specifica “libertà” da parte dell’utente di scegliersi le letture gratis (poco impegnative, rapide, inutili).
Si parla tanto di “mercato” e proprio chi più ne parla e il maggior interessato al suo annientamento, alla sua riduzione a propagine della propria attività industriale, senz’anima, senza profondità, simile più ad un allevamento di polli che ad un’arena di galli. Vabbe’… e se ho commesso errori correggimi, vado a buttare le speranze di una ripresa del mondo editoriale.
Ciao.
Beh, messa giù così forse è un po’ troppo dura. In linea di massima però è vero che parlare di mercato in senso alto non ha senso, visto che che sono state fatte delle leggi (ad personam o ad aziendam o ad minchiam, come preferisci) che hanno pesantemente vincolato le risorse a disposizione. E in ogni caso non era tanto normale neanche che ci fossero dei giornali, anche importanti, che ricevevano dei finanziamenti statali. Com’è vero (ma è un problema piuttosto generalizzato e non solo dell’editoria) che oggi di gente disposta a lavorare per un tozzo di pane ce n’è davvero tanta. E del problema etico, strettamente legato al giornalismo, se ne infischiano tutti. È difficile restare liberi e intellettualmente onesti, quando un direttore di giornale ha dietro la porta decine di colleghi pronti a prendere il tuo posto se non sei più che allineato. Non so esattamente quale sia la situazione negli Stati Uniti, anche se recentemente ho letto un libro molto interessante su come l’editoria tradizionale negli Usa sia praticamente crollata sotto i colpi di Internet. Per quanto riguarda il web, però, non sono d’accordo che sia un’editoria ‘da uomo moderno ecc.’. Certo se uno si ferma al sito di Repubblica o del Corriere, ha una panoramica limitata. Ma i canali di informazione sul web sono sterminati, soprattutto se si conosce un po’ l’inglese. E le occasioni di approfondimento non mancano. Peccato che si tratti di un’industria completamente diversa, per la quale non funzionano i modelli di business tradizionali. E quindi, ammesso e non concesso che un giorno succeda, passerà un bel po’ di tempo prima che si creino delle figure professionali, delle infrastrutture industriali, appunto.
Molte testate editoriali prestigiose stanno passando solo online. Si pensa che un punto di svolta per la diffusione di un’editoria on line di qualità potrebbe essere la diffusione dei tablet, che renderà leggere su video come leggersi il giornale. Potrebbe essere vero.