La palude del comfort
by albi69
Da quando ho cominciato a guardare alla mia vita in maniera più critica, ho iniziato anche a ragionare su un non-luogo particolare che avevo sempre frequentato ma che non avevo mai ben analizzato, la mia zona di comfort. Per quanto ne ignorassi l’esistenza, questa condizionava pesantemente la mia vita. Mi permetteva di muovermi liberamente e soprattutto tranquillamente, ma solo all’interno di un recinto ben delineato e rassicurante, quello delle mie abitudini, delle mie amicizie, dei miei steccati, non solo fisici. Convincendomi ad evitare qualsiasi escursione al di fuori di questi confini, per non dover affrontare scomodità, imbarazzi, confronti, giudizi, paure.
In questo modo mi ero autoconfinato nella mia abitudinarietà, dove vivevo convinto che quello per me fosse ‘bene’. Il comfort di per se non è negativo, anzi. Però sarebbe naturale, avrebbe più senso, perseguirlo e abbandonarsi ad esso quando si è un po’ più in la con gli anni, quando si è effettivamente più vulnerabili e si ha bisogno di circondarsi di certezze. Io, e come me molti della mia generazione, invece, abbiamo cercato il comfort già da giovani, rinunciando spesso a cercare una nostra strada (con tutte le sue incertezze), in favore di quella già percorsa da altri, spesso dai nostri genitori. Facendo di quelle che erano state le loro scelte, e di quelli che erano stati i loro obiettivi, le nostre scelte e i nostri obiettivi. Il tutto per risparmiare tempo e raggiungere prima possibile quegli status che ci hanno insegnato essere desiderabili: il posto fisso, le vacanze, il grande schermo tv, l’automobile, il pranzo della domenica. E molti di noi hanno raggiunto questi ‘obiettivi’. Io per esempio. A 19 anni avevo già il mio primo contratto a tempo indeterminato, a 25 spendevo in vacanze all’estero, settimane bianche, tecnologia e bei vestiti come se piovesse, a 31 firmavo il contratto di mutuo per l’acquisto di una casa. Così facendo, però, abbiamo costruito e delimitato prima del tempo la nostra zona di comfort. Rinunciando in pratica a tutto quello che è esterno ad essa. E correndo peraltro il rischio, come è successo a me, di trovarsi impreparati, disarmati, nel momento in cui si sarebbe presentato un ‘conto da pagare’. Proprio perché si è adagiati nella propria zona di comfort, dove l’imprevisto non è un’opzione.
A costo di risultare impopolare, a questo proposito, mi permetto di invidiare (in senso buono, ovviamente) i famigerati ‘giovani’ che oggi, esasperati dalla situazione italiana, si fanno coraggio e partono, alla ricerca di un futuro. Il mio “se avessi 20 anni di meno…” non è buttato lì, tanto per dire, e ad essere sinceri, nonostante i miei quasi 45 anni, la famiglia, gli amici ecc. ecc., io l’idea di rimettermi in gioco da qualche altra parte non l’ho ancora archiviata. Ma tornando a chi è partito, e magari oggi si confronta con la vita in contesti diversi, chi in Europa, chi altrove, beh… caspita! Questo sì che è un modo netto di andare ‘oltre’ la propria zona di comfort. Niente parenti, niente amici, addirittura una lingua diversa, leggi, regolamenti, comportamenti, clima, religioni diverse… Non mi viene in mente niente di meglio per mettersi alla prova.
Ma uscire dalla propria zona di comfort non è occasione riservata a chi ha l’opportunità (o il coraggio) di partire. Ci sono modi meno estremi e più graduali per farlo. Basta cominciare. Magari analizzando quelle che sono le proprie abitudini e decidere di cambiarne una, poi magari un’altra e così via. Cambiare le proprie abitudini, e quindi crearne di nuove. Secondo logica, non appena una nuova abitudine diventerà tale, entrerà automaticamente ad essere parte integrale della nostra zona di comfort, e dunque un giorno potrebbe trasformarsi a sua volta in un’abitudine da cambiare, in un processo che pare infinito ma che ci garantisce la mobilità, il cambiamento, il rinnovamento, l’evoluzione. Certo, uscire dalla propria zona di comfort richiede uno sforzo, un sacrificio, forza di volontà. Ma cosa volete che sia cambiare il proprio modo di mangiare, o iniziare a fare un’attività sportiva, o cominciare a lavorare di meno, di fronte a chi di punto in bianco molla casa e famiglia per andare a vivere in Germania, in Svezia o addirittura in Australia? Credo sia assolutamente necessario insegnare ai propri figli ad uscire quanto più spesso possibile dalla propria zona di comfort, perché questo diventi per loro una ‘necessaria abitudine’. Al contrario di quanto hanno fatto i nostri genitori (o almeno i miei), insegnandoci piuttosto a scegliere la strada più sicura, quella più semplice, quella già battuta, quella che offre le ricompense più riconoscibili. Mi rendo conto che non sto certo sostenendo un pensiero originale. Il succo del discorso è lo stesso che c’era in tanti rimproveri brontoloni di mia nonna (“troppi vizi”, “troppe comodità”, “troppo facile”…), e di chissà quanti altri nonni…
Purtroppo da giovane non ho fatto grandi esperienze fuori dalla mia zona di comfort, se escludiamo il fatto che a 22 anni mi sono trasferito per lavoro in un’altra città, dove sono rimasto per sei anni. È stato utile e formativo, ma avrebbe potuto essere molto di più. E invece durante quegli anni ho fatto degli errori, molto stupidi. Invece di vivere pienamente quell’esperienza, quei luoghi, quelle persone, mi sono comportato come fosse semplicemente una (lunga) trasferta professionale, e basta. Quasi ogni fine settimana tornavo a Roma, a casa, in famiglia, in pratica nella mia zona di comfort (tralascio il risvolto economico della faccenda). Così facendo, rinunciavo a chissà quante esperienze, a quanti incontri, a quante escursioni fuori dalla mia zona di comfort che avrebbero potuto portarmi a vivere una vita completamente diversa da quella che vivo oggi. Inutile dire che nel momento che decisi che la mia esperienza professionale in ‘trasferta’ era finita, fu comunque verso Roma che mi rivolsi, anziché cercare magari di scoprire una terza tappa, una nuova città. Ecco, imparare ad uscire dalla propria zona di comfort potrebbe effettivamente fare la differenza nella vita di una persona.
Forse è tardi, ma per quanto mi riguarda da un po’ di tempo ho preso a sfidare sempre più spesso la mia zona di comfort. Non è facile, perché non sono abituato, ma già le mie piccole escursioni hanno reso più interessanti le mie giornate, più piene, meno… normali.
E l’effetto, a tratti, è inebriante.
e dire che ero partita così bene… Erasmus in Belgio, tesi ed esperienza lavorativa in Marocco, poi lavoro ancora in Belgio, in Germania, sempre sola, viaggio, giro, cresco, cado, riprovo… e infine che faccio? mi sposo e, come i salmoni, vengo a fare i figli di fianco a casa della mamma, lascio tutto, scelgo la sicurezza del nido natio… e lì resto. Ora che loro sono adolescenti sento sempre più intenso il prurito sotto le mie ali. Il tuo post sparge sale sulle mie piaghe, o mi ricorda che non è osservandole che cambierà qualcosa… (sono arrivata al tuo blog qualche tempo fa, attratta dal tuo procedere verso un consapevole minimalismo)
Quando si è allargata così tanto la propria zona di comfort, deve essere dura ritrovarsi al ‘punto di partenza’. Ovviamente non puoi cancellare quello che hai fatto, quello che sei stata. E non devi. La tua zona rimane comunque molto più vasta di quella che frequenti ora. Il ‘richiamo della foresta’ continuerà a farsi sentire. E prima o poi dovrai trovare un punto di sintesi fra quello che sei e quello che sei stata. Che non dovrà per forza essere un punto di sintesi fisico. La questione non è se rimarrai a vivere vicino a tua madre o se partirai di nuovo per un altro posto. La questione è piuttosto cosa vorrai essere nella terza parte della tua vita. È quello che mi chiedo sempre anche io…
Ciao, ieri ho incontrato un bella ragazza, con un bel corpo (pratichiamo nuoto insieme), bel viso, un lavoro, due bei bambini… divorziata. e non riesce a trovare un partner, scappano quando sanno dei due bambini. E lei ne soffre. Leggendo il tuo commento ho pensato “non si può avere tutto, a ciascuno manca qualcosa”. Ciao!
‘Azz, e ti lamenti, la tua vita in confronto alla mia è stata una pacchia. Non sto a raccontarla, ma ti assicuro che sono sempre stato al verde e figlio di gente al verde, e non perché non lavorassero.
Io sono nato all’estero, rientrato in Italia, laureato lavorando, e sono tornato anche all’estero, ma non ha funzionato. Io credo semplicemente che nella vita ci vuole fortuna. Ciao.
Fortuna? Sicuramente. Ma non si può ridurre tutto a questo. Sono d’accordo con chi dice che la fortuna bisogna cercarsela. Non è detto che la trovi, ma sicuramente va cercata. E se non la trovi nella tua ‘zona di comfort’ devi cercarla anche al di fuori di questa.
Consiglio due libri sulla “fortuna” o meglio sul caso, che hanno cambiato la mia vita, o meglio mi hanno aperto gli occhi e quindi per forza cambi direzione. sono entrambi di nicolas Nassim Taleb: “Giocati dal caso” e “il cigno nero”. dopo averli letti è stato come rinascere in certe visioni che coltivavo erroneamente. Si, fortuna, fortuna, fortuna. Solo fortuna. Statisticamente fortuna. Che ne so, nascere in quel 20% del mondo più ricco, oppure, ancora meglio, essere estratti fra miliardi di possibilità e… nascere mentre tutti gli altri spermatozoi vengono distrutti e non arrivano a fecondare. OK, non ci si presta attenzione, ma già nascere è un colpo di c… fenomenale, statisticamente quasi impossibile (uno fra miliardi)… e poi l’economia, la salute, e tutto il resto, tutte cose che uno non vede di solito e pensa di essere bravo lui…. Consigliatissimi, ciao
Grazie per il suggerimento. Ma resto convinto che, sì, la fortuna abbia un ruolo, ma che non sia giusto prendersela solo con la sfortuna se le cose vanno male…
“Questo è un tempo oscuro, colmo di sofferenza, via via che vecchi sistemi e certezze passate si sgretolano. Non c’é condizione migliore per imparare la più difficile e gratificante delle lezioni: come fare amicizia con l’incertezza; come riversare tutta la nostra passione in un progetto anche se non siamo sicuri che il nostro impegno andrà a buon fine, e allo stesso tempo liberarci dalla dipendenza di voler vedere a tutti i costi i risultati delle nostre azioni.”
– Joanna Macy, Stories of the Great Turning
Amen! 😉
Per ribellarmi a quelli che mi parvero obiettivi decisi da altri, dalla mia famiglia in primis, provai ad uscire dalla mia zona di confort. Sono stato in Israele, in Sudamerica, in Inghilterra e infine in Australia. Una volta tornato, mi sono sorpreso a pensare che il viaggio stava diventando la mia zona di confort. Ora il mio stato d’animo altalena tra la contentezza di aver fatto esperienze che difficilmente avrei potuto fare se inserito nei ritmi normali casa-lavoro di un’esistenza media e la tristezza di constatare che, per inserirsi in questi stessi ritmi dai quali ora sono escluso, provo ad intraprendere quelle strade verso le quali mi ribellai all’epoca. Ma, per riprendere il tuo termine, non voglio impaludarmi in queste sensazioni: in ogni luogo e in qualsiasi circostanza possiamo agire ed evadere (e non fuggire, come magari ho fatto io) pur rimanendo vicino casa. Un saluto. 🙂
È quello che si diceva, no? Nuove abitudini che diventano pian piano vecchie abitudini ed entrano di fatto a far parte della nostra zona di comfort. E dunque rischiano di diventare zavorre che finiscono per frenare la nostra evoluzione, e forse faremmo meglio a cambiare prima o poi, di nuovo. Comprendo la tua situazione: il viaggio è la tua zona di comfort mentre quello che per me è normalità per te significa uscire dalla zona di comfort. Ma il viaggio l’hai scelto tu (seppure come reazione a uno stimolo esterno), non l’hai mutuato dalle convinzioni di qualcun altro. Al contrario, io ho cominciato a lavorare subito, affrettandomi a ‘impilare’ uno dopo l’altro tutti quegli standard richiesti dalla nostra società. Con il risultato che tu sei contento delle esperienze di viaggio che hai fatto, mentre io che ora metto in dubbio la ‘normalità’ che tanto agognavo, rimpiango di non aver cercato da solo una mia strada. Ribadisco: sarebbe il caso di educare i propri figli alla scelta, alla possibilità di errore, all’eventualità dell’insuccesso, invece di convincerli ad adottare le soluzioni che noi reputiamo giuste. È utile che affrontino quante più difficoltà da giovani perché possano armarsi degli strumenti necessari per affrontare la vita adulta.
Punto di vista stimolante. E analisi molto aderente alla realtà per quello che mi riguarda: addirittura la mia prima uscita (o le prime) dalla zona di comfort, verso i 20 anni, è stata “a rimorchio” dei miei genitori. Quindi paradossalmente sempre piuttosto comoda…
Comunque credo anche dipenda dalla posizione dalla quale guardi: a 19 anni io ero comodamente iscritto all’università e il fatto che tu avessi già un contratto a tempo indeterminato e per di più con un lavoro strafico (nell’89/’90 non si diceva ancora “cool”) a me sembrava davvero una roba poco banale e molto desiderabile!
Appunto! Anche a me sembrava desiderabile. Il problema è proprio questo. A 19 anni non dovresti considerare desiderabile stare in un ufficio otto ore in cambio di una sicurezza economica che in fondo non ti serve (non ancora). Io poi nello specifico ho avuto la fortuna di iniziare in mezzo a un gruppo di persone completamente pazze e in gamba, di vedere decine e decine di concerti (per lavoro! gratis!) di rimediare un casino di dischi e di incontrare qualche rockstar. Ma questo è un caso particolare. In generale, rimane il fatto che qualcuno dovrebbe insegnarti che (a meno di particolari casi di difficoltà in famiglia) per farti prendere dal meccanismo piùlavoro-piùguadagno-piùspendo c’è sempre tempo. E che forse nel frattempo puoi permetterti di vivere meno comodamente, perché questo potrebbe aiutarti a capire chi sei e cosa veramente vuoi. Poi è chiaro: a te sembrava una fortuna la mia, mentre io a un certo punto ho invece rimpianto il fatto di avere interrotto gli studi che invece molti miei amici hanno portato a termine. Oggi credo che queste reciproche insoddisfazioni siano proprio figlie del fatto che chiusi nella nostra zona di comfort, non abbiamo comunque sfruttato appieno quegli anni.